Musiche per Menon
di Daniele Spini
Per quanto sia stata appartata, e per desiderio dello stesso poeta anche abbastanza elusiva, dunque improntata tanto nei contenuti quanto nel rapporto con il mondo a una sorta di elogio del silenzio, la vicenda creativa di Gian Giacomo Menon ha determinato una serie non irrilevante di ricadute musicali, coinvolgendo compositori di generazioni diverse, e anche con storie stilistiche abbastanza diverse. Fino a poco tempo fa si aveva notizia di sei nomi in tutto. Cinque di questi, legati in un modo o in un altro al territorio del Friuli Venezia Giulia, furono protagonisti di quello che resta il momento cruciale del rapporto fra la poesia di Menon e la musica: il concerto del 6 marzo 1972 al Teatro delle Mostre (o Palamostre, come lo si identifica correntemente) di Udine, inserito della stagione dell’Agimus e inteso appunto come un omaggio a Menon, nel quale il mezzosoprano Elena De Martin e il tenore Giuseppe Botta eseguirono dodici liriche per voce e pianoforte musicate sui versi di lui dopo una prolusione di Toni Colùs (Antonio Colussi). Come ci narra Cesare Sartori nel suo contributo biografico contenuto in questo stesso volume, Menon “si guardò bene dal farsi vedere, coerente con la sua drastica scelta di assenza”, a una manifestazione non solo organizzata, ma addirittura concepita – come conferma la creazione più o meno in contemporanea di tutti i lavori in programma – in suo onore, frutto di tre musicisti della sua generazione, due dei quali più anziani di lui, e ormai solidamente affermati ma anche di due giovanissimi, che stavano giusto allora dando le prime prove importanti.
Il più anziano era Enrico De Angelis Valentini, laziale di origine, in quanto nato a Rocca di Papa nel 1900, ed educato come compositore e come pianista a Pesaro e a Roma, ma che già nel 1943 era venuto a vivere a Udine, come insegnante di pianoforte al Liceo Musicale “Jacopo Tomadini”, rimanendoci sino alla sua scomparsa, nel 1983. Musicista forte di una professionalità di sapore antico, cresciuto all’ombra della “generazione dell’Ottanta” (fra i suoi maestri, dopo Amilcare Zanella, ci fu anche Alfredo Casella), impegnato nella didattica del suo strumento (quanti pianisti italiani da piccoli si sono esercitati sui suoi pezzi infantili, o allenati sui suoi studi) non meno che nelle prove compositive di maggior impegno, De Angelis Valentini affrontò in quell’occasione una pagina inedita, la luna nei solchi. Una scelta che forse non per caso cadeva su un testo di ampie dimensioni, nel quale Menon sembra, se non altro a una prima lettura, ideare in più luoghi scorci e accostamenti meno bruschi e sintetici del solito, distendendosi in una contemplatività quasi pascoliana. E in questo senso, si direbbe, si orienta anche il titolo, Poemetto, assegnato da Enrico De Angelis Valentini al suo lavoro.
Più vicina anagraficamente a Menon Cecilia Seghizzi: nata a Gorizia – dunque sostanzialmente conterranea di lui – nel 1908, figlia d’arte, violinista, allieva per la composizione di uno straordinario protagonista della vita culturale e artistica di Trieste come Vito Levi, instancabilmente e poliedricamente attiva per decenni come concertista, compositrice (specialmente impegnata sul fronte della musica per coro) e pittrice, e tuttora vivacissima. Vicina come posizioni stilistiche al maggior Novecento storico italiano ed europeo, Cecilia Seghizzi rivestì di suoni due poesie pure inedite di Menon, le brevissime, quasi elusive venivano e vengono e la colomba passò, unite sotto il titolo Due schizzi in un dittico rimasto – come finora le altre composizioni eseguite in quel concerto – esso pure inedito.
Terzo in ordine di età, forse allora primo come notorietà, l’udinese Piero Pezzè (1913-1980): già allievo a Trieste di Mario Montico, come anche di quell’Antonio Illersberg che era stato il primo maestro di Luigi Dallapiccola, dal 1939 insegnava storia della musica al “Tomadini”, ed era figura di prima fila nella vita musicale di Udine. Compositore fertile e originale, spaziante dall’attenzione al Novecento francese degli esordi a successivi approdi alla atonalità e alla composizione seriale, attivo anche come pianista (specialmente nel campo della musica da camera), studioso, animatore di complessi corali, Pezzè aveva composto le sue Tre liriche nel 1970, scegliendo i testi fra quelli pubblicati (ed era stata la prima edizione di poesie di Menon dopo, anzi ben dopo quel nottivago[1] che nel 1930 aveva raccolto le sue esperienze giovanili di futurista) su “La fiera letteraria” nel 1966[2]: non chiedere il cedro alle colombe, vengo con zufoli di creta e scambiati zodiaci. Tre poesie molto diverse fra loro, ma accomunate da una ricerca strenua di essenzialità stilistica. Più ancora delle parole con le quali Pezzè commentò il suo lavoro (“I finissimi versi del Menon, pieni di immagini fantastiche, caldi di sentimento, animati da una ritmica varia e stimolante, mi hanno suggerito una lettura musicale che mi sono proposto lineare nella struttura, sollecita nella espressività del canto e discreta nella partecipazione strumentale di sostegno”[3]) forse rende loro giustizia proprio la realizzazione musicale essenziale ed efficace. Per non chiedere il cedro alle colombe una linea melodica semplicissima, in bilico fra tonalità e dissonanza, attenta a rispettare al massimo la struttura ritmica delle parole; la parte del pianoforte è ridotta all’osso, e fornisce al canto un commento algidamente sospeso. In termini non diversi si muove vengo con zufoli di creta, sfruttando peraltro le allusioni musicali dell’incipit nelle evocazioni rarefatte di flauti quasi debussyani proposte dal pianoforte. Tutt’altro linguaggio in scambiati zodiaci, per il quale Pezzè ricorre alla dodecafonia, addirittura disponendo l’avvio dell’accompagnamento pianistico lungo una serie contenente tutti gli undici intervalli possibili: i dodici suoni (tanti quanti i segni dello zodiaco) fluttuano in una ritmica piana tenendosi quasi sempre alle soglie del silenzio, in consonanza con le immagini lunari e surreali del testo (che evoca irresistibilmente, e forse non casualmente, se si pensa all’intrico di citazioni criptiche disseminato da Menon nelle sue poesie, il Pierrot lunaire di Ernest Guiraud, musicato nel 1912 da un Arnold Schönberg ancora lontanissimo dalla scelta dodecafonica). Le Tre liriche sono state attentamente analizzate da Daniela Terranova in una tesi di laurea su Poesia e serialità in Piero Pezzè, discussa all’Università di Trieste nell’A.A. 2001-2002, relatore Roberto Calabretto.
A un’altra generazione apparteneva l’allora venticinquenne Franco Dominutti (Udine 1947), destinato a una bella storia di compositore, insegnante, e (onorando una tradizione saldamente e preziosamente radicata nella regione) maestro di coro. Musicate nei primi mesi di quel 1972, le sue Tre liriche danno voce ad altrettante poesie inedite: più lenta filigrana è letta da Dominutti con estrema linearità nella parte del canto, contro pochi accordi (spesso bitonali) del pianoforte, fino a dar vita a frequenti stringhe di dodici suoni; ebro ebro di te è invece scandita da una parte strumentale aggressiva, nel segno di una inquieta instabilità ritmica, comunicata anche alla voce, non intonata sulle parole dell’incipit, riprese al principio della seconda terzina. Rarefatto ma anche più scorrevole pietà per pietà, disposto in crescendo dalle dinamiche tenui dell’inizio al fortissimo con quattro f che punteggia il ritorno delle parole “pietà per pietà” per ridiscendere velocemente al pianissimo conclusivo.
Più giovane di tutti, e fresco di diploma, il triestino Daniele Zanettovich (1950), che però al tempo del concerto ha già al suo attivo una mole più che rispettabile di composizioni, fra i quali un atto unico (Celine) rappresentato quando era ancora studente al conservatorio, e il Concerto per flauto che in questo stesso 1972 gli vale la vittoria (prime di due, a pochi anni di distanza) al concorso "Prix Prince Pierre de Monaco". Una fecondità e fertilità creativa che in questi quarant’anni sembrano non aver conosciuto soste, fino a proporlo come personalità di primo piano nella cultura musicale contemporanea, con notevoli affermazioni internazionali, ma che non gli hanno impedito di darsi da fare anche come direttore d’orchestra, e come insegnante di composizione al “Tomadini” (ma già nel 1972 aveva avuto come allievo giusto Dominutti, di tre anni più anziano di lui!). Nel 1972 Zanettovich continua a fare pure il suo primo mestiere, quello del pianista, tant’è vero che il concerto Agimus lo impegna appunto ad accompagnare i due cantanti. Le Tre liriche su testo di G. G. Menon sono datate 1971, e si rivolgono anch’esse a testi allora inediti: si dedica all’attesa, le cavità incessanti e nero volo dell’anatra (il primo e il terzo saranno pubblicati da Menon nel 1998, insieme con le diciassette poesia già edite dalla “Fiera letteraria” e altre nella raccolta I binari del gallo[4], curata da lui stesso insieme con Carlo Sgorlon e Maria Carminati). Forse non per caso, fra le tre partiture – sulle cinque in programma – che ci è stato possibile esaminare, quella di Zanettovich sembra la più attenta a sfruttare le possibilità del pianoforte, nonché a concentrare la realizzazione musicale anzitutto sule valenze sonore dei testi, in termini ritmici non meno che melodici, in un linguaggio aggiornato, di non ripetitiva modernità. Così si dedica all’attesa muove dal pianissimo e da una declamazione ondeggiante per montare in un crescendo quasi violento fino al grido “delle vene”, mentre in chiusura la parola “grido” è detta nuovamente in pianissimo e distesa nell’unico vero e proprio melisma di un lavoro altrimenti ancorato a una musicazione quasi esclusivamente sillabica; contrasti dinamici piuttosto bruschi e dizione di estrema asciuttezza melodica caratterizzano le cavità incessanti in senso quasi aforistico; anche in nero volo dell’anatra la voce sembra imporsi una sostanziale castità melodica, avvolta da un fluttuare di terzine del pianoforte.
E per molto tempo la storia musicale di Menon si è limitata a queste cinque composizioni, finora di altrettanto limitata circolazione: il programma, affidato ad altri esecutori (il tenore Arduino Zamaro e il pianista Tarcisio Todero) risulta essere stato trasmesso da “Radio Friuli Venezia Giulia” il 26 gennaio 1976, e replicato da “Radio Trieste” il 21 gennaio 1977; mentre nel 1995 le Tre liriche di Piero Pezzè furono eseguite durante un concerto in sua memoria dal mezzosoprano Mirna Pecile e dalla pianista Natascia Grebeniouc a Cividale del Friuli (sala del convento delle Orsoline) l’11 aprile e il 12 a Udine, nel Salone del Parlamento in Castello[5].
Quasi un quarto di secolo dopo ecco però giungere un nuovo confronto, assai importante per l’autorevolezza del compositore. Stavolta non si tratta di un friulano o di un triestino, ma di un americano, James Dashow. Nato a Chicago nel 1944, Dashow ha fatto dell’Italia il centro di una carriera intensissima svolta tanto di qua quanto di là dall’Atlantico, impegnandosi nella computer music e contribuendo fra l’altro negli anni Settanta a fondare una struttura di eccezionale importanza artistica e scientifica come il Centro di Sonologia Computazionale dell’Università di Padova. La sua conoscenza con Menon passa per il matrimonio con la nipote di lui, Annasilvia Bombi: e trova un momento di speciale intensità negli anni Novanta, quando il poeta spedisce al musicista trenta poesie scritte a macchina, tutte successive al 1977. In queste Menon sembra estremizzare ulteriormente la sua scelta stilistica, portando il suono delle parole e la loro valenza musicale a far premio ancor più di sempre sul loro possibile significato, contribuendo così a chiarire anche retrospettivamente il senso della sua esperienza poetica.
Aspetto che Dashow sembra aver colto perfettamente, tanto da rivolgersi alla poesia di Menon non più nei termini di una liederistica tradizionale, ancorché linguisticamente moderna, identificata sin dal primo romanticismo in una presa diretta della composizione sul significato delle parole (posizione in parte già superata da alcuni dei compositori presenti al concerto del 1972) e nel tandem voce-pianoforte, bensì in quelli di un rapporto diretto fra suono della parola e suono musicale, che aggiunge ai due interpreti consacrati dalla storia anche la componente attuale, e in qualche misura potenzialmente straniante, dei suoni elettronici. Lavorando fra il 2000 e il 2001, Dashow sceglie una sola delle poesie a lui offerte, come là dove le solitudini e l'onda della terra e vi premette una di quelle nel frattempo pubblicate nei Binari del gallo, i fermagli notturni, raccogliendole sotto un titolo, Sul filo dei tramonti, ricavato dall’ultimo verso (“un'intera vita impiegata sul filo dei tramonti") della poesia il candore e la ruga, che nei Binari precede immediatamente appunto i fermagli notturni. Il titolo completo recita anzi Sul filo dei tramonti / due liriche dalla Mont / per soprano, pianoforte e suoni elettronici / poesia di Gian Giacomo Menon: operazione che evoca - anche nell’allusione friulana di quel “dalla Mont” - una qualche dimensione autobiografica tacendo però le parole stesse che la indicano. Dashow sembra così omaggiare, e con ciò stesso sottolineare, il carattere criptico se non esoterico addirittura di tanta poesia di Menon (per la quale ci si chiede se auspicare o temere un’operazione simile a quella delle Discrezioni nelle quali Mary de Rachewiltz volle “spiegare” alcuni dei molti e fittissimi enigmi impliciti nei Cantos di suo padre Ezra Pound). Nel suo lavoro, Dashow rispetta il verso proprio anche come significante, come fatto sonoro, facendo nascere da questo ritmo e melodia del canto, modulando le emozioni più sulla musicalità delle parole che non sul loro contenuto ed espandendo il canto stesso nei suoni del pianoforte e questi a loro volta nella loro ombra elettronica, con la quale dialogano interagendo fra loro a creare atmosfere a volte anche assai tese e drammatiche, facendo succedere una lirica all’altra senza interruzione, ma collegandole con un breve episodio affidato alla sola elettronica.
Dedicato in calce “in memoriam Gian Giacomo Menon / un poeta per poeti”, Sul filo dei tramonti è stato eseguito per la prima volta a Udine il 18 ottobre 2006 dal soprano Pamela Hebert e dal pianista Aldo Orvieto, nell’ambito della X Rassegna di Nuova Musica "Contemporanea 2006" organizzata dalle Edizioni musicali Taukay. Nel 2005 Dashow ne aveva realizzato una versione per flauto (anche flauto contralto e ottavino), arpa e suoni elettronici.
Così Dashow stesso presenta il suo lavoro:
Scrivere questa nota di programma è più difficile del solito, per due motivi. Primo, a causa del tristissimo avvenimento che è successo durante la composizione del brano: il poeta è scomparso prima che il lavoro fosse compiuto, e date le sue condizioni di salute negli ultimi tempi, non sappiamo se abbia potuto rendersi conto che io stavo musicando due delle sue poesie. E pensare che volevo far questo sin da quando ho conosciuto il poeta, a Udine nei tardi anni ’80. Il secondo motivo ha a che fare con la difficoltà di parlare di una poesia che ho potuto capire più istintivamente che a livello di significato letterale. Ho potuto apprezzare la maestria che Menon aveva sulle sottigliezze dell’italiano soprattutto attraverso il suono, il ritmo e il flusso di immagini delle sue opere, ed anche la capacità di inventare nuove parole per costringere la lingua ad esprimere quello che voleva lui. Mi sembra che quello che voleva era (è) un bellissimo lirismo introspettivo, che riesce a costruire dalle immagini, suoni e sentimenti-pensieri più disparati una visione poetica unificata, satura di una squisita ed intima espressione.
È proprio questo che cerco di catturare con la musica, facendo una mescolanza di parole e suono che trasforma tutta questa “materia prima” in qualcosa di nuovo, una sorta di “interpretazione mediante trasformazione”, o meglio, una traduzione in una dimensione interamente diversa.
Il titolo del pezzo, da un’altra poesia di Menon, cattura, in solo quattro parole, una complessità piena di sentimenti e di riferimenti multi-dimensionali. Questo mi sembra l’essenza della poesia di Menon, un poeta per poeti.
Tecnicamente, Sul filo dei tramonti rappresenta ancora un’altra esplorazione delle risorse del mio Sistema Diadi, dove sia le note, sia i suoni elettronici sono derivati dalla medesima struttura di base. I suoni elettronici sono qui solo stereofonici, ed è stata una sfida interessantissima di cercare di creare diversi sensi di profondità e di spazio in contrasto con la presenza immobile del soprano e del pianista. La struttura della musica è una stretta variazione sulla struttura della poesia, ed è particolarmente evidente nella seconda delle due selezioni.
I suoni sono stati realizzati con il programma per la sintesi digitale del suono MUSIC30 da me creato, e trasformati poi con varie procedure di trattamento del segnale audio.
Ma la “Menon-Renaissance” che ha preso le mosse recentemente, e della quale questo volume è al tempo stesso prodotto e, per alcuni dei suoi contenuti, in certo senso causa ancora prima di esser pubblicato, ha aggiunto altri tre nomi all’elenco dei compositori che han lavorate sulle poesie del professore, retrodatando di un anno l’inizio della vicenda musicale di questi testi. Al 26 maggio 1971, nella sala Ajace di Udine, risale la prima e finora unica, per quanto si sa, esecuzione della Piccola cantata per solo, coro e cinque strumenti composta da Tarcisio Todero (Pradamano 1930-2011) sui versi averti come i lunghi odori della terra, poi confluiti nei Binari del gallo. Allievo per la composizione dapprima di De Angelis Valentini e poi di Luigi Perrachio a Torino, pianista e organista, per lunghi anni insegnante al “Tomadini”, Todaro come abbiamo visto avrebbe anche partecipato alla ripresa radiotrasmessa del programma del 1972. L’esecuzione di Piccola cantata fu diretta dallo stesso Toni Colùs che avrebbe poi introdotto il programma del 1971, alla testa del coro dell'istituto magistrale "Caterina Percoto" nel quale allora insegnava Menon, nell’ambito di un saggio musicale di fine anno scolastico. Una composizione breve, rigorosamente sillabica; gli strumenti seguono l’andamento ritmico piano e scorrevole delle voci sostenendole o alternandosi a esse, aderendo al clima nostalgico e sospeso del testo.
Nel frattempo, la progettazione di un Cd dedicato appunto alla storia musicale di Menon ha innescato la composizione di tre nuovi lavori (un po’ come era avvenuto per il concerto del 1972), ancora una volta coinvolgendo nomi legati a Udine e al suo territorio. Alla dimensione tradizionale della lirica per voce e pianoforte, che aveva ispirato appunto il concerto del 1972, si sono rifatti i due compositori più giovani: ecco quindi Aulon Naçi, albanese classe 1983, studi appena completati al “Tomadini”, creare sinfonia, dal remoto nottivago, ritrovando uno stile “novecentista” che in certo senso richiama il 1930 che vide la pubblicazione della raccolta, e il giovanissimo Alessio Venier (Gemona, 1992), ancora studente a Udine ma già in possesso di un bel carniere di esecuzioni di musiche sue, partire da scarto e scacco, una delle poesie inedite raccolte in Meno di un giorno (1 gennaio 1994) , per dar vita a sonorità immobili e algide, secondo una scelta sottile di modernità asciutta e interiorizzata. Al più attuale dei linguaggi musicali, i suoni elettronici, compresa un’elaborazione della voce recitante dello stesso Cesare Sartori cui si deve in sostanza questa complessa intensa opera di riscoperta e riproposizione di Gian Giacomo Menon e della sua poesia, ricorre invece Vittorio Vella, da sempre protagonista generoso e instancabile, anzitutto con le sue Edizioni musicali Taukay, della maggior parte delle attività in campo contemporaneo a Udine e nel suo territorio. Fonso trae spunto da una delle non moltissime poesie in lingua friulana di Menon:
Dato che il Cd partiva dalla poesia di Menon, recitata e cantata, ho pensato di utilizzare la parola, rendendola suono attraverso varie elaborazioni temporali e di sintesi timbrica. Ai suoni della voce elaborati ho contrapposto/mescolato altri suoni reali, per la maggior parte inarmonici (le campane suonate dal protagonista della poesia). Nel realizzare la composizione ho provato a mantenere vivo l'interesse dell'ascoltatore confezionando una piccola storia sonora con i suoi "colpi di scena" e le sue dinamiche.
Così questo lavoro sigla tutta l’impresa sotto un segno fascinoso ed enigmatico: lo stesso, in fondo, che emerge dalla quasi indecifrabile essenzialità e privatissima interiorizzazione dei versi ora riportati all’attenzione del mondo della cultura insieme con i suoni cui hanno dato ispirazione.
[1] il nottivago – versi liberi, Milano, Ediz. Pagine blu, 1930.
[2] “La fiera letteraria” a. XLI, n. 32, 18 agosto 1966.
[3] “Ce fastu”, 2003, n. 1.
[4] I binari del gallo, Pasian di Prato, Campanotto, 1998.
[5] Cfr. Pierluigi Visintin, Piero Pezzè, musicista europeo nel Friuli del Novecento, Udine, Kappa vu, 1995, p. 325.