Ammiro gli arlecchini di Cézanne e di Picasso, ma non amo Arlecchino: porta un cappello e un vestito di tutti i colori e, dopo aver rinnegato al canto del gallo, si nasconde. È un gallo notturno. Amo invece il vero gallo, perfettamente versicolore: il gallo dice ?Cocteau? due volte e resta nel pollaio.
Jean Cocteau
Francis Poulenc (1899 - 1963)
Sonata
per oboe e pianoforte
Silvia Zabarella - oboe, Barbara Rizzi - pianoforte
Georges Auric (1899 - 1983)
Trio
per oboe, clarinetto e fagotto
Silvia Zabarella - oboe, Roberto Scalabrin - clarinetto,
Daniele Galaverna - fagotto
Darius Milhaud (1892 - 1974)
Le boeuf sur le toit
(Cinéma-Symphonie sur des Airs Sud-Américains)
per pianoforte a quattro mani
Antonio Nimis, Barbara Rizzi - pianoforte
Arthur Honegger (1892 - 1955)
Petite Suite
per due strumenti melodici e pianoforte
Silvia Zabarella - oboe, Lucio Degani - violino,
Barbara Rizzi - pianoforte
Arthur Honegger (1892 - 1955)
Sonatina
per clarinetto e pianoforte 11 Modéré 2?28?
Roberto Scalabrin - clarinetto, Barbara Rizzi - pianoforte
Francis Poulenc (1899 - 1963)
Trio
per oboe, fagotto e pianoforte
Silvia Zabarella - oboe, Daniele Galaverna - fagotto
Antonio Nimis - pianoforte
Ai compositori del Gruppo dei Sei e alla figura carismatica di E. Satie, artisti che lasciarono un'indelebile impronta nella cultura non solo musicale della Parigi del '900, l'Associazione Musicale Tarcentina ha voluto dedicare la I^ edizione di un Laboratorio Internazionale di Musica da Camera. Nel quadriennio 2002-2005, all'insegna dell'arguto e irriverente motto di J. Cocteau “Vive le Coq! À bas l'Arlequin!”, musicisti provenienti da tutta Europa si sono ritrovati a Tarcento (UD), cittadina del Friuli collinare, per riscoprire e valorizzare la musica di Satie, Honegger, Poulenc, Durey, Tailleferre, Auric e Milhaud. Frutto di tale entusiasmante esperienza è questo 2° CD che va a costituire quindi, oltre che un documento del lavoro svolto, anche una particolarissima antologia della musica da camera del Gruppo dei Sei. Direzione Artistica: Barbara Rizzi - Antonio Nimis
Fredde intense emozioni
di Marco Maria Tosolini
"Tra il gusto e la volgarità, entrambi fastidiosi, resta un impulso ed un provvedimento.Il tatto di comprendere fino a dove si può andare troppo lontano" Riportando in un saggio su i "Six" questa frase presa da uno scritto sulla vivace rivista "Mot" di Cocteau, Paul Collaer (AA.VV.,1987) segnala che "questa ultima osservazione sarebbe ben presto divenuta una delle frasi chiave di Le Coq et l'Arlequin e avrebbe guidato fino ad un certo punto la condotta dei giovani musicisti che sarebbero diventati i "Sei"(ibidem). E' il caso comunque di ricordare che Le Coq et l'Arlequin fu un opuscolo che Cocteau pubblicò in epoca coeva alla nascita del gruppo, lanciato con l'appellativo de i "Six" dal giornalista Henri Collet senza che i compositori ne fossero informati. Auric, Durey, Honegger, Milhaud, Poulenc, Tailleferre non avevano in animo una progettualità estetica comune. Erano semplicemente legati da amicizia e da una "Gioia di vivere" comune. Tuttavia ciò che affascina è che quel multiforme laboratorio d'arte che fu il gruppo - di cui forse questo documento secondo del workshop cameristico che ne è all'origine è sintesi poetica significativa - ebbe qualche filo rosso sotteso fra le diverse sensibilità creative.
Il complesso di creazioni qui fonoriprodotte vede idealmente aprirsi e chiudersi con due opere di Poulenc dove la prima è della maturità estrema (sonata per oboe e pianoforte del 1962) e l'ultima della fase giovanile (Trio per oboe, fagotto e pianoforte del 1926) essendo, l'autore, nato nel 1899 e scomparso nel 1963. Poulenc, sa va sans dire, è la personalità più intensa e completa dei "Six", senza nulla togliere all'alluvionale creatività di Milhaud, al rigore criptosperimentale di Honegger, alla poco conosciuta e lieve eleganza di Auric, qui presenti. Una bella foto di Man Ray, del 1924, ritrae Poulenc in quella diafana levigatezza del volto imberbe che dimostra meno anni di quelli anagrafici, disegnato nella gentilezza vagamente paffuta di una eleganza un po' molle. Una figura assai engagé, coerente con l'emergere di quello che fu subito individuato, nella Parigi più rutilante, un enfant gaté. Eppure il giocare di Poulenc con le forme sublimi di un camerismo perfetto, non lo fece cedere totalmente al neoclassicismo che Stravinskij aveva lanciato dal 1919, dopo il viaggio a Napoli e la scoperta di Pulcinelli pseudopergolesiani. Anzi quella tensione morale e/o satirica che gli aveva permesso di comporre La voix humaine (1959) o Les mamelles de Tirésias (1947) o, ancora, Les dialogues des carmélites (1957) si trasforma, nella scrittura cameristica, da un lato in una vena lirica pura e inesauribile come sorgente cristallina, dall'altro come rigore costruttivo che non solo non impedisce la fluidità della dinamica costruttiva ma, semmai, la esalta. La sonata per oboe e pianoforte mette in risalto tutto ciò laddove va data particolare attenzione alla scrittura pianistica che, in virtù della esperita ricchezza sottolinea, più che supporta l'evoluzione melica dell'oboe. I disegni tematici a quest'ultimo consegnati sono quanto mai adatti ad esaltare le virtù seducenti ed arcaicizzanti ad un tempo, dello strumento caro a Pan. La cultura profonda e classica di Poulenc è un valore aggiunto alla sua sensibilità per fare del bizzoso tematismo novecentesco comunque un atto di grazia anche nei punti più impervi, rapidi e virtuosistici.
Il Trio conosce una storia particolare perché ci giunge con delle modifiche intervallari rispetto all'originale. Questo non certo per una arbitrarietà di qualche improvvido trascrittore ma per una consuetudine di variazione tematica voluta dallo stesso Poulenc, il quale ne consegnò e autorizzo la traccia nel corso di varie esecuzioni realizzate assieme a André Lardrot già Maestro di Silvia Zabarella. Un gradevole esempio di "trasmissione diretta" del ripensamento di un Maestro. Il camerismo di Poulenc ha un registro di particolare attenzione per l'uso dei fiati e dei legni in particolare. Qui, pur nel nitore di una scrittura antiromantica - eppur sensibile e a tratti lirica - tutti i dispositivi di magnificazione timbrica (tradizionale) vengono messi in atto dando alla relazione fra le due doppie ancie momenti di suggestiva vibratilità. Dialogico ovviamente è l'impianto più percepibile, con un pianoforte che tesse trame di armonizzazione e ricongiungimento.
Nel 1938, anno di composizione del Trio per oboe, clarinetto e fagotto, Auric era un compositore maturo ed esperito (1899-1983) ed esprimeva, a livello personale, una personalità forte, portatrice di cultura vivissima, notevole ironia, senso critico vicino spesso a quel sarcasmo che gli aspetti più ruvidi e meno noti della cultura parigina trasmettono. Ciononostante come compositore è sostanzialmente sottovalutato forse per quella tendenza conformista degli osservatori i quali, laddove non vedono presunta chiarezza ma debordante ecclettismo, si insospettiscono e ne riducono l'importanza nella valutazione e nella consegna ai posteri. Compose - in modo ancora più estremo di Poulenc - musiche di grande impegno, per film (per Cocteau e Renoir!), cabarettistiche, dissacranti, canzona-torie. Fu un depistatore più vicino di tutti, forse, a Satie soprattutto nell'epoca coeva. Ma, anche qui, nel scendere nell'agone dell'esercizio di stile Auric dimostra padronanza e approccia il camerismo con sicurezza e passo rigoroso. Il Trio è, in tal senso, esemplare. Più "articolato" tematicamente dei lirismi di Poulenc la composizione non disdegna,però e in più di un punto, momenti piani e riflessivi ma la traccia dominante è quella della vividezza costruttiva. E' evidente che l'uso di tre strumenti monodici stimola l'autore a veri e propri giochi sonori, quasi pregiate "grafie" musicali che gli interpreti tessono con un gusto di florilegio tipico di un alto autocompiacimento, di una cultura della bellezza esecutiva tout-court.
Le boeuf sur le toit , anche nella trascrizione per pianoforte a quattro mani - vi è una versione per orchestra - è sostanzialmente un piccolo monumento alla poetica antiromantica del più neoclassico dei "Six", Darius Milhaud. Ci troviamo di fronte ad un vero e proprio dandy della composizione ma, ancora una volta, imprevedibile, vulcanico, dispettoso, proteiforme. Il catalogo di Milhaud è impressionante e la grand fanfare della sua inesausta creatività prende ispirazione dalle architetture gotiche fino agli episodi (surreali) di cronaca. Così quando su un giornale di Parigi compare la foto di un bue che gli ignari abitanti di un quartiere trovano la mattina su un tetto - e dall'immagine appare evidente che il bue ha un'aria perplessa - Milhaud non resiste alla tentazione di tradurre in musica per un balletto la anodina situazione. La realtà supera la fantasia. Milhaud ne trae una musica che tributa onore agli amati ritmi sudamericani (usa nella composizione tango, maxixe, samba e fado portoghese) che aveva conosciuto nella sua lunga e dorata trasferta in Brasile al seguito dell'ambasciatore-scrittore Claudel. Milieu musicale spesso scoppiettante, motivi reiterati e cantabilissimi, dissonanze accennate e dispettose ma grande amabilità del tutto. Una ridda di colori sonori resi anche nella versione pianistica.
Di origine svizzera Honegger si forma a Parigi sotto la guida del severo e bravo Gedalge, oltre che Widor e D'Indy. Per questi motivi non meraviglia la sua predisposizione allo stile classicista e filogermanico nel comporre. Nel quadro dei "Six" è certo il meno lieve e il più strutturato, innamorato delle tecniche contrappuntistiche e del mondo bachiano. Il suo contributo è proprio per questo particolare e significativo. Lo dimostrano queste due composizioni del 1922 - la sonatina per clarinetto e pianoforte - e del 1934 - la Petite suite per violino, oboe e pianoforte. Quest'ultima, in realtà, fa parte di un corpus di tre composizioni dove la prima è per sassofono e pianoforte, la seconda è per due flauti, la terza è per due strumenti melodici e pianoforte. In origine vi è una pratica che prevede violino, clarinetto ma l'indicazione, come si evince, dà libertà nell'assemblaggio timbrico. Anche l'ascoltatore profano, ma sensibile, coglie in queste due opere la suggestiva difference della poetica di Honegger soprattutto da Poulenc e Auric. La solidità costruttiva di Honegger guarda a celebrazioni formali di notevole forza e il suo "esprit de froundeur" è più nel segno di una ripulitura strutturale del sentimentalismo senza disdegnare una sostanza d'espressione che invece, talvolta, magnifica l'intensità. a tratti drammatica, del sentimento.