Dall'affermazione di Jean Cocteau, grande esponente dell'avanguardia letteraria ed artistica parigina del primo novecento, è nata l'idea di fondare a Tarcento, cittadina collinare del Nord Italia (Friuli Venezia Giulia) il Laboratorio Internazionale di Musica da Camera, in cui ogni anno, per una decina di giorni, diversi musicisti si ritrovano per dar vita a produzioni musicali che valorizzino sia i compositori del ?Gruppo dei Sei?, sia chi ne influenzò le scelte artistiche.
L'Associazione Musicale Tarcentina, impegnata da oltre un ventennio a promuovere la cultura musicale con iniziative di alto valore artistico, ha voluto raccogliere nel presente CD una parte del repertorio eseguito dal Laboratorio nel biennio 2002/2003.
Direzione Artistica:
Barbara Rizzi - Antonio Nimis
Seri scherzi in musica
a cura di
Marco Maria Tosolini
Si sa che i “six” francesi - i compositori Auric, Durey, Honegger, Milhaud, Poulenc, Tailleferre - non hanno fatto mistero di considerare Erik Satie una sorta di padre spirituale ed ispiratore. Satie (1866-1925), giunto al successo faticosamente e tardivamente, fu qualcosa di più “esteso” di un compositore, ancorché di difficile decifrazione per molti suoi coevi. Se lo si considera un "riprogettatore di estetica" che utilizza soprattutto la musica il personaggio - di straordinaria importanza per, appunto, un ripensamento dell'arte stessa dal Novecento in poi - diventa certo più comprensibile ed amabile. Vale la pena in tal senso di leggere "Quaderni di un mammifero" dove si concentrano le finissime provocazioni, il divertissement metamorale, il gioco sottile dei calembours più logici che lessicali a dimostrazione che la musica è la via principale del suo “fare artistico” ma non l'unica. Non a caso è il milieu sperimentale dei surrealisti che lo accoglie laddove le musiche per orchestra di “Cinema - Entr'acte” sono a lui affidate da un manipolo di incursori della cultura come Cocteau, Duchamp, Man Ray e quant'altri.
Così perfettamente si inseriscono in questa controestetica antiromantica di inizio secolo scorso i celebri “Trois morceaux en forme de poire” per pianoforte a 4 mani. Si dice stimolati da un Debussy affettuoso ma un po' critico, nel momento in cui invitava Satie a prestare maggiore attenzione allo “sviluppo della forma” in termini ovviamente compositivi, i morceaux in quella direzione tornarono con una non troppo implicita ironia. Infatti, in francese, morceaux significa “pezzi” ma soprattutto “pezzi staccati a morsi” come si può fare con un frutto. E, va da se', en forme de poire - in forma di pera! - echeggia una elegante ridicolizzazione della "necessità della forma" in musica a cui Debussy benevolmente lo invitò.
Satie dimostrò, con rare composizioni piuttosto articolate, che non era la capacità di padroneggiare il materiale musicale “storico” che gli mancava. Compì, invece, un percorso atto a portare una nuova visione dell'atto estetico stesso. Così, nello scrivere musica, e in questi pezzi deliziosi (come un frutto garbato?) il fluire della composizione si contraddice in un senso di elegante “episodicità” dove temi dell'accordalità e e di divertite melodizzazioni apparentemente vacue ridisegnano una poetica e si distaccano, con lieve sorriso, dalle ormai esauste temperie del tardo romanticismo da un lato ma anche da certo inquieto impressionismo dall'altro. Accenni di reiterazioni di moduli espressivi annunciano una delle maggiori intuizioni di Satie e, cioè, quella della ripetitività utilizzata non più evitata come fantasma di sterilità creativa ma, semmai, come eretico demolitore della “sacra” unicità dell'idea generatrice. Se si pensa che di lì a poco Walter Benjamin scriverà “L'opera d'arte nell'epoca della riproducibilità tecnica” sulla perdita dell'”aura” della medesima e pochi decenni dopo nascerà, negli Stati Uniti d'America, la musica detta “iterativa” e/o “minimalista” Satie si configura come profetico agitatore giungendo alla composizione “Vexations” per pianoforte dove una formula accordale viene ripetuta ad libitum!
Dei “six” Germaine Tailleferre costituisce, anche se non l'elemento di punta, una insolita nota di reale feminino d'arte, raro anche nella evoluta Parigi di quegli anni. Estremamente longeva la notorietà della
compositrice (assieme a quella di Durey e Auric) dopo il periodo glorioso del “club” artistico-intellettuale durato sostanzialmente dal 1918 al 1921 fu un po' offuscata da altre figure del gruppo la cui produzione ebbe maggiore risonanza ed eco nella storia in genere. Tuttavia, in tempi recenti, con l'intensificarsi di attenzione alle forme di camerismo più raffinato dell'alto Novecento è riemersa la figura di quest'autrice, scomparsa nonagenaria non tanto tempo fa. La Sonata per violino e pianoforte della Tailleferre è del 1956 e, cioè, come le opere qui enunciate degli autori provenienti dalla famosa prima riunione nel salotto del pittore Louis Lejeune (cui solo mancava Milhaud, in Brasile come attaché al seguito dell'ambasciatore-scrittore Paul Claudel) che allora si battezzarono “Les nouveaux Jeunes” appartiene ad un'epoca ben diversa dalle vivaci origini. Dopo il 1921 ognuno degli autori prese una sua strada ma non si deve pensare che l'ambiente artistico di origine non abbia segnato in qualche misura un fare musica così inizialmente connotato. Pur trattandosi di autori diversi ciò che li accomunò fu, come s'è scritto, un sostanziale antiromanticismo ma anche un distacco dalle ansie delle avanguardie e delle sperimentazioni con, forse, eccezione di Honegger, la cui ascendenza germanica gli lasciò legami significativi con la musica dei romantici tedeschi e una tensione metafisica incline a soluzioni ardite (per tutti “Pacific 231” dove gli archi “mimano” l'accelerazione di un treno con propulsione diesel). Tailleferre, dunque, nel suo lungo excursus, conosce raramente grandi curve creative e la “Sonata” ci convince della sua “calligrafia” compositiva intonsa, dove momenti di cantabilità si alternano a situazioni più articolate e semivirtuosistiche, fermando sempre l'attenzione ad un sostanziale nitore espressivo.
Con Francis Poulenc si tocca forse la vetta creativa del mondo dei “six” in considerazione della grande raffinatezza di scrittura di questo autore, della sua affascinante ambivalenza fra l'esegeta di cameristi lievi ed intriganti e quella dell' autore intenso ed ispirato (soprattutto opere teatrali e corali a carattere religioso). Due anime che guardano forse più a Ravel che a Satie ma che bene accolgono e riesprimono un particolare “neoclassicismo”. Forme ben tornite, disegni chiari, grande senso lirico modellano il camerismo di Poulenc dove la matura “Sonata” per clarinetto e pianoforte - composta nel 1962, anno che precede la morte - è un estremo omaggio ai suoi ambiti strumentali più amati: il pianoforte e i fiati. Una composizione questa che inizia con un guizzo esecutivo poi orientato a lirismi di diverso respiro. Né mancano aspetti dove l'espressione diventa misteriosa migrando spesso da zone oscure a più luminose anche in ragione di repentini cambi di relazione maggiore-minore. La parte centrale si distilla in un percorso rarefatto, nutrito si semplicità dei movimenti accordali del pianoforte e di sommessa, quanto suggestiva espressione melica del clarinetto dando forte connotazione, in realtà, a tutta l'opera anche e nonostante la vividezza quasi circense dell'ultimo tempo.
“ Capriccio d'apres Le Bal masqué”, “Elégie”, “L'Embarquement pour Cythère” per due pianoforti rispettivamente del 1952, 1959, 1951 costituiscono un “trittico di stile” dove il dialogo pianistico di Poulenc ci consegna sia padroneggiamento tecnico di formule complesse (talvolta di vago sapore stravinskiano) ma anche e soprattutto di quella vena un po' incantata eppure nitida, tipica di un pianismo tutto “francese” che Poulenc portò a maturazione straordinaria nel corso della sua vita artistica.
Il più prolifico dei “six”, vero funambolo della creatività, con un catalogo di composizioni sterminato, fra loro diversissime, quasi epigone e potenziatore di una multiformità stilistica iperstravinskiana fu certamente Darius Milhaud. Nell'incredibile novero delle sue composizioni solo i quartetti per archi, ad esempio, sono venti, a dimostrazione che la musica da camera costituiva un luogo privilegiato anche in questo orizzonte generale così ampio. Una moltitudine di pezzi per le formazioni cameristiche più diverse offrono anche soluzioni timbriche assai diverse. La “Suite op. 157b” per violino, clarinetto e pianoforte, del 1936, gode di quegli equilibri aurei, nella costruzione formale, nell'inventività tematica, nell'intelligenza divertita di soluzioni briose tipiche di un neoclassicismo “altro” rispetto alle suggestioni di Poulenc. Milhaud, anche quando appare maggiormente meditativo è tuttavia incline alla solare esplicitazione. La godibilità di questa “Suite” sta sostanzialmente nell'esercizio di stile colto e brillante, capace di far muovere i tre strumenti come tre attori capaci e convincenti, conduttori di un “discorso” musicale piacevole, ricco e non banale.